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DA GENGIS KHAN ALL’IDEOCRAZIA. LA VISIONE EURASIATICA DI NICOLAJ TRUBECKOJ

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Il principe Nikolaj Trubeckoj (1890, Mosca), ampiamente conosciuto come il fondatore della fonologia e considerato, insieme con Roman Jacobson, uno dei padri della svolta linguistica e “dello strutturalismo”, morì nel 1938 a Vienna, dove aveva tenuto la cattedra universitaria di lingue slave. (Poco prima del suo decesso era stato rimosso dall’incarico dai nuovi governanti nazionalsocialisti della “Ostmark“). L’Accademia austriaca delle Scienze si ritiene perciò una sorta di amministratrice della sua eredità intellettuale. Non era però stata finora manifestata l’intenzione di pubblicare, oltre ai suoi lavori di linguistica, anche gli Scritti scelti sulla scienza della civiltà (1), che presentano Trubeckoj come fondatore del movimento eurasiatista.

Tale passo sarà stato certamente incoraggiato dall’attualità del termine Eurasia. Gli scritti ci indicano, tuttavia, che i sostenitori di un asse Parigi-Berlino-Mosca (in senso stretto una formula per occidentalismo russo) o di un impero grande-russo possono fare appello a Trubeckoj soltanto in misura molto limitata. Dal volume, inoltre, possono trarre profitto lettori interessati alla storia delle idee, anche se non eurasiatisti, perché i contributi di Trubeckoj sono rilevanti per la comprensione del rapporto generale che intercorre tra fra nazionalismo e universalismo e rivestono un certo interesse per via delle sue vedute notevolmente originali sulla storia russa, vedute scientificamente fondate – naturalmente prima di tutto sulla filologia comparativa – ma anche esposte con uno stile coinvolgente.

Il volume contiene le note, un indice e una bibliografia, nonché un testo intitolato dal curatore La visione eurasiatista di Nikolaj Trubeckoj: retroterra ed effetto; ma la cosa più importante sono i quattro testi di Trubeckoj: L’Europa e l’umanità (1920), L’eredità di Gengis Khan (1925), Sul problema dell’autocoscienza russa (1921-1927) e L’ideocrazia come ordine della società del futuro secondo la dottrina degli eurasiatisti (1927/34).

 

 

L’infezione occidentale della Russia

L’Europa e l’umanità, pubblicato in traduzione tedesca già nel 1922, consiste in un’ampia  riflessione sul corretto rapporto fra un nazionalismo (positivo) e le due posizioni estremiste dello sciovinismo e del cosmopolitismo.  Ma successivamente Trubeckoj dimostra che il cosiddetto cosmopolitismo non è se non un’altra forma di sciovinismo, lo sciovinismo della civiltà occidentale, che – in maniera alquanto infelice – Trubeckoj chiama la civiltà dei “Romano-Germani”. Come gli sciovinisti non possono accettare di vedere la propria nazione allo stesso livello delle altre, ma devono elevarla al rango dell’unica nazione accettabile, per cui la loro cultura nazionale deve essere imposta a tutte le altre, così i cosmopoliti si comportano esattamente allo stesso modo con la loro civiltà occidentale, che è emersa con l’Illuminismo e la secolarizzazione. La missione civilizzatrice dell’Occidente, che oggi manifesta il suo imperialismo culturale nei confronti del mondo arabo e islamico e pretende l’accettazione dei valori “universali” occidentali, è efficacemente delineata da Trubeckoj ed è smascherata nella sua insostenibilità logica. Oggi, quando il cosmopolitismo e lo sciovinismo americano ci si rivelano come un’unica realtà e adottano le forme occidentali del cristianesimo – il protestantesimo e il cattolicesimo riformato/deformato – per i loro programmi di aggressione, l’analisi di Trubeckoj viene confermata in maniera inequivocabile, anche se, ovviamente, Trubeckoj non parlava di americanizzazione ma di europeizzazione. In effetti l’America è soltanto la conseguenza estrema di quell’aspetto antitradizionale dell’Europa che si è andato delineando dal Rinascimento, dalla Riforma, dalla Rivoluzione.

L’occidentalizzazione, chiamata da Trubeckoj europeizzazione, è “un male assoluto per ogni popolo non romano-germanico”, un male contro cui “si può e quindi si deve lottare con tutte le forze. Tutto questo deve essere compreso non esteriormente, ma interiormente; non solo compreso, ma sentito, vissuto, sofferto. Bisogna che la verità appaia in tutta la sua nudità, senza orpelli, senza residui del grande inganno, dal quale deve essere ripulita. Bisogna che sia resa chiara ed evidente l’impossibilità di qualsiasi compromesso: se la lotta è inevitabile, essa deve essere combattuta fino in fondo” (p.88). Una caratteristica essenziale degli scritti di Trubeckoj è che egli è solito fare riferimento, come fondamento più profondo, non alla cultura, all’economia o alla politica, ma alla psicologia – o alla personalità. Inoltre per lui deve avvenire “un rivolgimento totale, una rivoluzione nella psicologia dei popoli non romano-germanici. L’essenza di questo rivolgimento è la consapevolezza della relatività di ciò che prima sembrava assoluto, cioè dei ‘vantaggi della civiltà europea’. Ciò deve essere cancellato con un impietoso radicalismo. Forse è difficile, estremamente difficile, ma è anche assolutamente necessario.” (p. 88)

“È necessario liberare i popoli del mondo dall’ipnosi dei ‘vantaggi della civiltà’ e riscattarli dalla schiavitù spirituale. Questo compito può essere eseguito solo da una cooperazione unanime. Non bisogna neppure per un istante perdere di vista l’essenza del problema. Non bisogna lasciarsi distrarre da un nazionalismo particolare o da soluzioni parziali come il panslavismo, il panturanismo e tutti gli altri panismi. Questi particolarismi non fanno che oscurare la sostanza del problema. Bisogna ricordare sempre e fermamente che la contrapposizione degli Slavi ai Germani o dei Turanici agli Ariani non dà una vera soluzione del problema. La vera contrapposizione è una sola: i Romano-Germani e tutti gli altri popoli del mondo, l’Europa e l’umanità” (p. 89).

Con queste parole termina “L’Europa e l’umanità“. Ora, non sarà mai abbastanza evidenziato quello che gli scritti di Trubeckoj mostrano chiaramente, ossia che ad essere evocata è la lotta contro l’Europa dell’Illuminismo e dell’imperialismo, nient’altro che la rivolta contro il mondo moderno. Un “raddrizzamento” in senso tradizionale dell’Europa, la quale non rappresenterebbe più la grande anomalia dell’umanità, porrebbe termine all’opposizione evocata più sopra; quando l’Europa si riconoscerà per quello che essa è in realtà, ossia una penisola del grande continente eurasiatico, allora non rappresenterà più la grande anomalia dell’umanità. La lotta per un recupero della tradizione in Europa non può essere combattuta nei termini di un “nazionalismo particolare” o di qualche sorta di “panismo”, ma soltanto insieme col resto dell’Eurasia, contro l’Occidente.

Secondo Trubeckoj, la Russia riconobbe pienamente il pericolo che l’Occidente rappresentava per essa, ma ne trasse la fatale conclusione che, per respingerlo, doveva prima conseguire alcuni successi. “La situazione era complessa e difficile: da una parte bisognava pur imparare qualcosa per difendersi; dall’altra c’era il timore di cadere nella dipendenza culturale e psicologica nei confronti dell’Europa. Siccome i popoli dell’Europa, pur professandosi cristiani, non aderivano all’Ortodossia, (…) lo spirito europeo è stato percepito dai Russi come qualcosa di eretico, peccaminoso, anticristiano e satanico. Il rischio di essere contaminati da una tale mentalità era particolarmente elevato. Gli Zar moscoviti erano consapevoli della complessità della situazione e non esitarono a cominciare ad acquisire le abilità tecniche. (…) Prima o poi dovettero decidersi ad acquisire sul serio le tecnologie europee, prendendo nel contempo misure severe onde evitare l’infezione occidentale. Fu Pietro I a prendere la decisione di adottare la tecnologia europea. Sennonché, egli si fece trasportare a tal punto dalla sua stessa iniziativa, che essa divenne per lui un fine a sé stante, senza che venissero prese contromisure efficaci contro l’infezione spirituale occidentale” (p. 124). Così con Pietro I iniziò il processo di europeizzazione della Russia, che produsse conseguenze molto più gravi di un’occupazione militare: la perdita della missione e dell’eredità storica, l’“eredità di Gengis Khan”. Ed è questo è il titolo dell’opera che abbiamo iniziato ad esaminare.

Dopo aver descritto il processo di europeizzazione condotto da Pietro I, conosciuto in Occidente come “il Grande”, dall’abolizione del patriarcato di Mosca fino all’introduzione, nel vestiario femminile, del decolleté, egli così riassume: “È pur vero che il grande piano di Pietro fu motivato dal suo patriottismo, ma ciò non toglie che si trattasse di un patriottismo affatto particolare, privo di precedenti radicati nell’anima della nazione. Egli non si curò per nulla di quella che era l’autentica Russia storica, preso come era dal suo sogno di creare un paese che fosse simile sotto ogni rispetto agli altri stati europei, ma che li superasse sia in estensione territoriale sia in potenza militare e navale. Il suo atteggiamento, nei confronti di quello che per lui era un puro e semplice materiale con cui plasmare la sua immane creatura, era improntato non ad amore, bensì a mera ostilità, giacché contro tale materiale dovette combattere una guerra ostinata ed interminabile, in ragione della resistenza opposta ai suoi sforzi di imporle lo stampo di un ideale ad essa del tutto estraneo” (p. 127).

L’adozione dei modelli nazionalistici occidentali da parte dei successivi regimi zaristi panslavisti portò la Russia ad ingarbugliarsi di continuo nelle questioni europee, a causa dell’aiuto che essa intendeva portare ai presunti “fratelli slavi”. Il “potere sovietico” insediatosi nel 1917 non si presentò “come un antagonista, ma come un continuatore di tutta la politica antinazionale di europeizzazione caratteristica della monarchia post-petrina” (p.142). “Con la distruzione dei fondamenti spirituali della vita russa e della specificità nazionale, con l’introduzione di quella concezione materialistica del mondo che già si era imposta in Europa e in America, col sottoporre la Russia a concezioni partorite da teorici europei e radicate nel suolo della civilizzazione occidentale, il potere comunista ha fatto della Russia una provincia dell’Occidente, riconfermando quella conquista di Pietro I aveva gettato le basi” (p. 143).

 

 

La nobiltà dei nomadi

Ma qual è il fondamento della vera Russia-Eurasia? La Russia-Eurasia è in primo luogo, per Trubeckoj, “l’eredità di Gengis Khan”. Le tribù slave “hanno abitato soltanto su una parte poco importante del grande territorio che include l’odierna Russia” (p. 195). La maggior parte è stata colonizzata infatti dalle tribù turaniche (dette anche “uralo-altaiche”). Queste tribù nomadi avevano una struttura politica limitata. Soltanto Gengis Khan fu capace di edificare, per primo,  a partire “dal sistema eurasiatico della steppa, uno stato nomade unificato con una organizzazione militare stabile”. Egli riuscì “a risolvere il problema storico, posto dalla stessa natura eurasiatica – il problema di una unificazione politica di tutto questo continente. Egli affrontò il problema nell’unico modo possibile: unificando la steppa sotto il suo potere e quindi unificando il resto dell’Eurasia attraverso la steppa” (p. 96). Per gli stati asiatici già esistenti, come la Persia e la Cina, ciò fu un vero disastro: “la conseguenza di tutto ciò fu che l’Eurasia trasse innegabili benefici da un simile processo, che però fu assai dannoso per altri paesi, giacché la conquista mongola irruppe nella loro esistenza storica privandoli dell’indipendenza ed interrompendone per lungo tempo lo sviluppo culturale (…). Sebbene in apparenza Gengis Khan attribuisse un’importanza maggiore alla conquista della Cina e del resto dell’Asia propriamente detta, ciò non toglie che egli abbia assolto una preziosa missione storica soltanto in Eurasia, emergendovi come il costruttore di un valido edificio storico” (p. 97).

Nel suo libro L’eredità di Gengis Khan, che recentemente è stato pubblicato anche in un’edizione italiana (2), Trubeckoj si prova a ricostruire la storia di questa “edificazione”. È una prospettiva storica eccitante, delineata a caratteri cubitali, alla quale è collegato, quale complemento linguistico ed etno-psicologico, il suo studio “Sul problema dell’autocoscienza russa”. I popoli mongoli e turchi vengono qui caratterizzati per il loro amore per la simmetria, la chiarezza, la stabilità e l’equilibrio. Comunque essi intendono queste qualità come date, e non come fini da raggiungere: “Cercare e trovare questi schemi originali e fondamentali, su cui deve essere basata la vita e la visione del mondo, è sempre associato dai popoli turchi ad un forte sentimento di mancanza di chiarezza e di stabilità. Per tale ragione i popoli turchi hanno sempre gradito adottare schemi e credenze straniere. Ma non tutte le concezioni del mondo straniere sono accettabili per i turchi. Per essere accettabile, una concezione del mondo deve possedere i requisiti di chiarezza e semplicità (…). Un credo religioso, che sia penetrato nell’ambiente turco, si irrigidisce e si cristallizza inevitabilmente, perché là esso ha la vocazione a giocare il ruolo dell’irremovibile centro di gravità, la condizione principale per un equilibrio stabile” (p. 206). Per la maggior parte dei popoli turchi, l’Islam è diventato un credo che, presso di loro, ha assunto una certa “cristallizzazione”; combatterla è vano, quantunque i padroni del Cremlino – con i loro modi rigidi – abbiano cercato di farlo da qualche secolo. Fu in maniera analoga che i Mongoli adottarono il Buddhismo.

In genere Trubeckoj valuta positivamente il contributo del “tipo psicologico turanico”: “La psiche turanica garantisce la stabilità culturale e la forza di una nazione, rafforza la continuità storico-culturale e in genere crea le condizioni favorevoli per un uso parsimonioso delle risorse nazionali” (pp. 212–213). Per Trubeckoj la psicologia è anche la chiave per comprendere il sistema statale di Gengis Khan. Secondo Trubeckoj, egli distingueva due tipi di uomini. Da una parte il tipo slavo, attento soltanto ai propri vantaggi materiali, per i quali è anche capace di tradire. Si tratta di un tipo umano che Gengis Khan ha talvolta utilizzato, ma fondamentalmente lo ha sempre disprezzato e non gli ha lasciato spazio nel suo Impero. Gli uomini appartenenti alla seconda categoria sono quelli che “pongono l’onore e la dignità personale al di sopra della comodità e della sicurezza” (p. 99).

Nel corso della realizzazione della sua idea d’impero, egli ebbe la prova che il primo tipo si trovava presso le popolazioni sedentarie, mentre “il nomade, non incline al lavoro fisico, attribuisce un valore alquanto limitato alle comodità materiali, ed è avvezzo a contenere i suoi bisogni senza considerare particolarmente onerose queste privazioni.” (p. 101). Oltre alle alte virtù militari e alla dote della fedeltà agli accordi, ai nomadi appartengono anche altre qualità che Trubeckoj presenta nelle sue pagine; tra queste, “le tradizioni del clan, il vivo senso dell’onore personale e familiare, la consapevolezza della responsabilità nei confronti non solo degli antenati, ma anche dei discendenti” (ibidem). Trubeckoj dipinge un quadro idealizzato dei nomadi, che richiama quello descritto dall’autore tradizionalista Titus Burckhardt: “È stato dimostrato che nessun’altra collettività umana è più conservatrice di quella dei nomadi. Nel suo costante viaggiare, il nomade è attento a preservare l’eredità della lingua e dei costumi; egli resiste coscientemente all’erosione del tempo, poiché essere conservatore non significa essere passivo. Questa è una caratteristica fondamentalmente aristocratica, sicché il nomade somiglia al nobile; più esattamente, la nobiltà della casta guerriera ha molto in comune con il nomade” (3).

 

 

Zar e Slavi

La nobiltà guerriera di Gengis Khan praticò anche la tolleranza religiosa, ma non l’indifferenza all’Assoluto: “l’assunzione da parte dei suoi sudditi di una qualche religione era per lui della massima importanza. Per tale motivo, egli non solo tollerava le religioni nel suo stato, ma le sosteneva tutte con vigore” (p. 103). Il “giogo tataro” produsse un effetto religioso positivo anche per i Russi: “Il più importante e fondamentale sintomo di questo periodo fu una eccezionale elevazione della vita religiosa. (…) In questo periodo si può registrare una vivace attività creativa in tutti i campi dell’arte religiosa: la pittura delle icone, la musica sacra e la letteratura religiosa raggiunsero un livello notevole” (p. 105). Lo stato russo finalmente liberato che emerse dal “giogo tataro” è visto da Trubeckoj non come un contro-progetto, ma come “l’erede e il successore dello stato di Gengis Khan” (p. 118); nell’espansione dell’Ortodossia egli vede un rivolo di quella corrente religiosa che era già iniziata sotto il “giogo tartaro”. “Il fondamento di tutto è stato costruito dalla religione, dalla ‘fede ortodossa’, ma la ‘fede’ era per la coscienza russa non un conglomerato di dogmi astratti, bensì un coerente sistema di vita concreta. La fede russa e la vita russa non erano separate” (p. 118), perché “tutta quanta la vita della nazione e tutte le attività erano determinate e regolate dallo Zar, che incarnava la volontà nazionale ed agiva come il trasmettitore delle istruzioni di Dio. Lo Zar ideale è perciò, da un lato, responsabile per il popolo ed agisce per esso davanti a Dio, mentre dall’altro rappresenta lo strumento della mediazione delle decisioni divine nella vita nazionale, in quanto lo Zar è l’Unto di Dio davanti al popolo” (p. 119). In questa parte del suo testo, Trubeckoj si avvicina alle concezioni della storia proprie degli slavofili, con l’importante eccezione che per lui non esiste una opposizione essenziale tra gli imperi mongolo e zarista: “Quantunque le fondamenta dello stato moscovita differiscano da quelle dello stato mongolo, possiamo tuttavia scorgere le caratteristiche di un’intima affinità (…). Tanto nell’uno quanto nell’altro vi era una certa forma di vita quotidiana, collegata ad una specifica psicologia, che costituiva il fondamento dello stato e il carattere della sua ispirazione. Nell’impero di Gengis Khan era lo stile di vita dei nomadi, nello stato moscovita era la professione quotidiana dell’Ortodossia. In ambedue i casi, la disciplina dello stato si fondava sull’assoggettamento di tutti membri senza eccezione e dello stesso re ad un principio non terreno, ma divino; la subordinazione di un uomo ad un altro e quella di tutti gli uomini al re è stata riconosciuta come una conseguenza della subordinazione al principio divino, il cui strumento terreno era il re” (p. 123).

Dell’opposizione di questo ordinamento russo all’Europa occidentale, ci siamo già occupati; resta ora da analizzare il contributo slavo alla cultura russa. Qui la più notevole asserzione di Trubeckoj rimane la sua radicale negazione della unità panslava, fatta eccezione per la lingua letteraria. “Un ‘carattere slavo’ o una ‘psiche slava’ sono miti. Ogni popolo slavo ha il suo specifico tipo psicologico, e nel suo carattere nazionale un Polacco è così poco simile a un Bulgaro quanto uno Svedese a un Greco. Non esiste nessun tipo antropologico, fisico, che possa esser detto slavo. La ‘cultura slava’ è anch’essa un mito, poiché ogni popolo slavo elabora la propria cultura separatamente, e le reciproche influenze culturali che gli Slavi hanno esercitato reciprocamente tra loro non sono più forti delle influenze che sugli Slavi hanno esercitate i popoli germanico, italiano, turco e greco. (…) Ad unire gli Slavi è la lingua, soltanto la lingua” (p. 271). Ma anche per quanto riguarda la lingua, rimane il fatto che è stata la “chiesa slava” a dare la propria impronta alla lingua letteraria; la tradizione ecclesiastica slava non la ha rafforzata “in quanto slava, ma in quanto ecclesiastica.”(ibidem).

Al termine del suo saggio sull’autocoscienza russa, Trubeckoj assegna all’Ortodossia una posizione centrale, in quanto essa ha saputo tenere insieme la triplice eredità bizantina, mongola e slava: “Per i russi la cultura bizantina, non era, sin dall’inizio, separabile dall’Ortodossia; lo stato mongolo diventò stato moscovita solo attraverso il contatto con l’Ortodossia, e la tradizione ecclesiastica slava poté recare il frutto della lingua letteraria proprio per il fatto che essa era stata ecclesistica ed ortodossa.” (p. 272).

 

 

Ideocrazia

Nel suo breve saggio sull’ideocrazia quale ordine sociale secondo la dottrina degli eurasiatisti, Trubeckoj integra alcune idee, già da lui individuate nell’ordine sociale di Gengis Khan e  precedentemente abbozzate. La sua nozione di “-crazia” si riferisce alla selezione dei quadri dello stato. Ricordiamo che fu lo stesso Gengis Khan a fare questa selezione, sulla base di alcune precise caratteristiche psicologiche che erano presenti nella gerarchia dei nomadi e non in quella delle popolazioni sedentarie. I sistemi sociali aristocratico e democratico/plutocratico sono considerati da Trubeckoj morti o “prossimi alla morte”. Le corti monarchiche ancora esistenti non sono più capaci di “influenzare lo sviluppo culturale e sono costrette a subire passivamente la civilizzazione. (…) Prima tutti erano ansiosi  (…) di imitare (…) la corte. Ora, al contrario, i membri delle case regnanti si preoccupano di non ‘restare indietro’ rispetto alla moda e di ‘seguire la maggioranza’“ (p. 278). Ma anche il “carattere della selezione democratica, che ha rimpiazzato quella aristocratica, presenta (…) i tratti della decadenza e della morte. (…) Un vero ‘uomo moderno’ vedrà l’intera fraseologia democratica come una reminiscenza del passato, più o meno come una teoria di governo burocratico-aristocratica” (p. 279). Realmente “moderni” erano, quando Trubeckoj scriveva questo saggio, il bolscevismo e il fascismo, nei quali egli intravide prefigurazioni imperfette del tipo “ideocratico” della selezione, cioè della comune concezione della classe dirigente. Questa idea apparirà familiare ai lettori di Julius Evola, il quale pensava che uomini di origini sociali differenti, inizialmente animati da un semplice spirito patriottico, avrebbero potuto edificare, sulla base di una concezione elitista dello Stato, una sorta di Ordine, per diventare in seguito i guardiani di un nuovo ordinamento organico della società (4). Ma i bolscevichi e i fascisti non possono essere visti, secondo il metro di Trubeckoj, come ideocrati puri. I bolscevichi si trovavano in una situazione paradossale, poiché, a causa della loro ideologia materialista, essi sarebbero stati il contrario di chi governa sulla base di una “idea”: “Il partito, che de facto esercita la funzione di una classe dirigente ideocratica, teoricamente nega ogni esistenza autonoma delle idee e perciò stesso anche la possibilità dell’ideocrazia” (p. 281). Il Partito Comunista dell’Unione Sovietica era costretto a far credere che al potere non c’era esso stesso, bensì il proletariato; così facendo, esso rimase intrappolato nel “pathos della lotta”, un atteggiamento mentale tipicamente democratico, che portò alla “creazione artificiale di obiettivi contro cui lottare” (ibidem). Anche il fascismo si trovava in una analoga condizione paradossale, in quanto la sua “idea” era esattamente il rifiuto delle “teorie” ed una certa idolatria della “prassi”. “Il risultato di ciò consiste nel fatto che l’idea fondamentale del fascismo si svuota di contenuto e (…) si limita esclusivamente alla idolatria della nazione italiana, cioè ad un’autoaffermazione nazionale. La Weltanschauung comune viene qui rimpiazzata da una emozione comune” (p. 281). Anche questa è una critica che potrebbe venire da Evola. A differenza di queste forme imperfette, la vera ideocrazia presenterebbe “una struttura del tutto particolare, diversa tanto dalla democrazia quanto dall’aristocrazia. (…) Le odierne incomplete forme di ideocrazia non si sono ancora totalmente liberate dai residui e dai frammenti di altre precedenti tipologie sociopolitiche (specialmente quella democratica). L’autentica ideocrazia del futuro, una volta depurata di tutte le concrezioni ad essa estranee, rivelerà forme politiche, economiche, sociali completamente nuove – di vita, di civiltà e di cultura” (p. 283). Non si può negare che il quadro dell’idea che dovrebbe essere il fondamento dell’ideocrazia rimanga un po’ sfocato; tuttavia, leggendo questa scelta di Scritti sulla scienza della civiltà, si può capire in quale direzione si rivolga la concezione “ideocratica”. L’ideocrazia dovrebbe essere una delle poche rimanenti alternative alla forma di governo della tecnocrazia “manageriale” (5), tanto più che tale concezione potrebbe svilupparsi in armonia con la tradizione e preparare la via ad uno Stato fondato sull’eredità, si tratti dell’eredità di Gengis Khan o di quella di altri grandi fondatori di imperi autentici, ben diversi dalle moderne contraffazioni imperialiste.

 

 

  1. Nikolaj S. Trubetzkoy, Russland – Europa – Eurasien. Ausgewählte  Schriften zur Kulturwissenschaft. Herausgegeben von Fedor B. Poljakov. Österreichische Akademie der Wissenschaften Philosophisch-historische Klasse, Schriften der Balkan-Kommission 45. Wien: Verlag der  Österreichischen Akademie der Wissenschaften, 2005.
  2. Nikolaj S. Trubeckoj, L’eredità di Gengis Khan, Editrice  Barbarossa, Milano 2005.
  3. Titus Burckhardt, What is Conservativism?, “Sacred Web”, No. 3, June  1999, p. 21.
  4. Altrove ho cercato di dimostrare che l’“Islam politico” della rivoluzione islamica iraniana potrebbe essere interpretato come un tipo di ideocrazia platonica: Martin Schwarz, Khomeinis platonischer Idealstaat und die traditionalistische Schule (www.eisernekrone.tk).
  5. La “rivoluzione dei manager”, descritta da James Burnham, può essere vista come una interpretazione rivale o supplementare del fascismo e del bolscevismo, ma anche del capitalismo occidentale, in quanto focalizza altri innegabili caratteri di questi sistemi.


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